IL TRENO PER IL DARJEELING, Wes Anderson (2007) e COME TOGETHER (2016), lo spot natalizio di Wes Anderson per H&M

Un viaggio infinito, imprevisti cambiamenti di rotta, un treno che diventa casa.

Se in Come Together il nomadismo del viaggio è fisicamente incarnato nella multietnicità dei passeggeri, nel film del 2007 il vagabondaggio è carattere intrinseco dei tre fratelli Whitman, separati dal giorno del funerale del padre e riuniti simbolicamente su un treno dall’altra parte del mondo.

Un nomadismo organizzato, con tanto di itinerario plastificato. E un nomadismo irrecuperabilmente infantile, che è allo stesso tempo effetto collaterale di un’incertezza quasi patologica e sintomo della necessità di essere ancora, dopo la morte della figura paterna, guidati – da qualcuno e verso qualcosa. Francis si propone come nuova guida, letteralmente pensando e prendendo decisioni al posto dei fratelli/compagni di viaggio. “Let’s go have a drink and smoke a cigarette” è la sua battuta ricorrente, emblematica di una (insicura) necessità di imporsi come fratello maggiore e come fulcro della famiglia.

Ma il viaggio rivela inevitabilmente l’inefficacia dei piani di Francis. Letteralmente, perché il treno si perde. Metaforicamente, perché l’itinerario non è direttamente stabilito da lui, ma scritto e programmato da Brendan, assistente nonché figura di appoggio del fratello “alfa”. La destinazione, poi, rivela la reale origine della premura di Francis: il suo, evidentemente, non è un fare paterno, ma piuttosto un’emulazione involontaria delle (precarie) cure materne.

Ad ogni modo, e inevitabilmente, l’impalcatura caratteriale del fratello dominante – che è, paradossalmente, anche il più debole e indifeso – cade, per ritrovare nel sincero affetto fraterno e nella reciproca complementarietà la chiave per ricostruire i rapporti familiari.

Il treno per il Darjeeling (2007). I tre fratelli nell’incontro con la madre

Partendo come uomini infantili e morbosamente legati a una figura genitoriale idealizzata, alla fine dell’itinerario, vestiti di nuova consapevolezza, i tre fratelli riescono a liberarsi dell’ingombrante bagaglio emotivo (nonché fisico, abbandonando finalmente le valigie del padre) e ad acquisire una nuova autonomia.

Il treno per il Darjeeling (2007). Una a una le valigie del padre vengono abbandonate

Il ritorno a casa, in Il treno per il Darjeeling e in Come Together, è possibile solo attraverso un lungo viaggio.

Il treno per il Darjeeling (2007). Il lungo viaggio è rappresentato da un treno all’apparenza interminabile e claustrofobico

Come Together (2016). Il lungo viaggio è rappresentato da un treno all’apparenza interminabile e claustrofobico

In Come Together il lungo viaggio è tale a causa del ritardo di 11,5 ore annunciato dal conducente Ralph. Diverso nelle premesse, è analogamente efficace nel riunire personaggi geograficamente lontani e fisicamente separati – le stesse finestre del treno che incorniciavano i passeggeri del Darjeeling Limited – in un incontro inizialmente forzato, ma che alla fine si rivela completamente naturale.

Come Together (2016). Le finestre del treno incorniciano e separano i passeggeri

Il treno per il Darjeeling (2007). Le finestre del treno incorniciano e separano i passeggeri

Lo spirito dello stare insieme; l’affetto familiare visto dalla prospettiva di un bambino (effettivo o incarnato in un personaggio apparentemente adulto); un treno interminabile che, anziché separare, concilia i diversi.

Come Together (2016). Il punto di vista del personaggio bambino

Come Together (2016). Il bambino

Il treno per il Darjeeling (2007). Gli adulti-bambini

Questo Natale sedetevi comodi, Conductor Ralph ha già pensato a tutto.
Carlotta Po

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SNOWDEN, Oliver Stone (2016)

Snowden si inserisce in una tendenza ormai inflazionata del cinema contemporaneo che scaturisce da un rinnovato fascino per la Storia – più o meno recente, più o meno ufficiale. Tendenza che, credo, non sia da interpretare come carenza di idee o perdita di creatività, ma piuttosto, nell’incertezza e nell’instabilità che viviamo quotidianamente, quale sincera necessità di scrutare il reale fino in fondo, per cercare risposte e, quando possibile, trovare un porto sicuro (o perlomeno un barlume di speranza) nei role models di ieri e di oggi identificabili in figure che, come in questo caso, perseguono l’eroica vocazione di frenare la lenta ma irreversibile degenerazione del nostro tempo.

Trattando vicende reali e ampiamente note risultare banali è quantomeno verosimile. Per fortuna dello spettatore, la noia non è tra gli attributi del film di Oliver Stone. Sarebbe facile cadere nella trappola della linearità narrativa o nella macchinazione del film inchiesta. La scelta registica partecipa, piuttosto, in modo coerente, alla decisione narrativa di prediligere alle informazioni di dominio pubblico gli aspetti più confidenziali della vicenda. La prospettiva è quasi quella di una soggettiva rubata (di e su Edward Snowden).

La macchina da presa rapisce l’occhio curioso dello spettatore, e con questi diventa spia, tramutandolo in complice consapevole dei servizi segreti. Assieme a loro, cioè, ciascuno minuto dei propri strumenti di audiovisione, anche lo spettatore, aderendo al punto di vista invadente della macchina, può accedere ai momenti più privati e intimi del personaggio. Sguardo al tempo stesso intrigante e criminale.

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Una scelta interessante, benché certamente non inedita, quella di rendere lo spettatore subdolamente partecipe di un’attività voyeuristica, che da sempre trova nel cinema la sua massima espressione, ma che solo recentemente si impone e si palesa a un punto tale da rompere letteralmente la finzione. Alla fine dei conti il risultato è quello di condurre lo spettatore a un livello superiore, metafinzionale, attivo e consapevole. Un ruolo che è quindi, in ultima analisi, più vicino a quello dello spettatore del documentario e della non-fiction. In linea con i contenuti presumibilmente reali del film.

Conforme alla strategia globale è anche la decisione di mostrare in mise en abîme la ripresa dell’intervista a Snowden da parte dei giornalisti; oltre alla scelta maggiormente straniante di sfuocare in modo via via più lampante il confine tra finzione e realtà nell’ultima parte del film, più vicina al cinéma vérité che alla fiction, mostrando tra le scene ricreate immagini autentiche di Edward Snowden e di quanto, in termini consequenziali alla storia raccontata, è accaduto grazie a lui.

Per vostra curiosità e per far luce su quanto è raccontato o solo menzionato nel film, ecco il link a tre TED Talks:

– di Greenwald http://www.ted.com/talks/glenn_greenwald_why_privacy_matters

– di Snowden http://www.ted.com/talks/edward_snowden_here_s_how_we_take_back_the_internet

– e della risposta a Snowden da parte della NSA http://www.ted.com/talks/richard_ledgett_the_nsa_responds_to_edward_snowden_s_ted_talk

Carlotta Po

MIDNIGHT SPECIAL, Jeff Nichols (2016) – vs. STARMAN, John Carpenter (1984) e INCONTRI RAVVICINATI DEL TERZO TIPO, Steven Spielberg (1977)

Midnight Special (2016)

“I’m interested in everything weird” (Mr. Shermin, in Starman)

Torna di moda il fascino del soprannaturale.
Con Midnight Special Jeff Nichols recupera il topos dell’alieno dalle buone intenzioni catapultato in mezzo a uomini che, per etica, morale o dotazione aletica, gli sono indubbiamente inferiori – e non mancano di dimostrarsi tali. Assieme al Mr. Fox di Starman, ci sentiamo dire, senza sforzarci di leggerlo tra le righe, “We’re the ancients”. Noi, gli uomini. Ancients, perché incapaci di vedere oltre l’orizzonte del razionalmente concepibile. Perché prontamente frenati nel tentativo di superare l’avido utilitarismo tipicamente umano. Potere (mediante conoscenza) e controllo (mediante privazione di conoscenza) sono i dettami del campione rappresentativo dei vertici – dello Stato o di qualunque altra organizzazione (come il Ranch di Midnight Special). Nonché modello di umanità corrotta o corruttibile dal quale pochi riescono a distaccarsi.

Questa volta l’alieno e il soprannaturale sono incarnati in un bambino – il “profeta” Alton (Jaeden Lieberher) – e ben inseriti in una sceneggiatura molto più ambiziosa del tipico high concept anni ’80-’90.

Midnight Special (2016)

La figura del bambino è un altro lascito del cinema commerciale anni ’80. Puro, incorrotto e depositario di una consapevolezza superiore, il bambino spielberghiano viene ora investito di capacità sovrumane. Non ci sono più l’alieno e il bambino (Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T.), ma c’è il bambino alieno, che racchiude nel suo piccolo essere le antitesi dell’umano, facendosi esempio e simbolo della meraviglia cui l’umanità potrebbe aspirare ma che puntualmente rifiuta in nome di un materialismo e di un potere troppo terreni. Un oltre, un sublime – che per un attimo vediamo e percepiamo, ma che non ci è dato di conoscere.

Midnight Special (2016)

Starman (1984)

Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977)

Come lo Starman di Carpenter, Midnight Special è una fantascienza che incontra l’on the road. È il viaggio dell’alieno e dei suoi alleati: attraverso l’umano, sulla Terra e verso una destinazione che coincide circolarmente con un ritorno al luogo di origine. E, loro malgrado, con una dolorosa separazione dai propri cari – il reincarnato Scott dall’amata Jenny (Starman), il giovane Alton dai genitori naturali (Midnight Special).

L’alieno torna infine nel suo mondo; il terrestre, di fatto, dà prova di essere tutt’altro che pronto alla sublimazione. “Sometimes we are asked to do things that are beyond us”, dice Doak; l’alieno ci chiede infatti di andare oltre le nostre possibilità, come individui e come esseri umani; in ultima istanza, di superare i nostri limiti per aprirci all’accoglienza di un soprannaturale decontaminato dalle difettose logiche umane, come condizione imprescindibile per la progressione verso una vita letteralmente superiore (e per questo, ironia della sorte, intrinsecamente non [più] umana).

D’altronde, come si dice, errare è umano.

Carlotta Po

SNOWPIERCER, Bong Joon-ho (2013) – Sulla libertà

Tra i molteplici esempi di film che hanno di recente colonizzato lo scenario post-apocalittico del cinema contemporaneo, Snowpiercer si rivela molto più che un action movie dalle aspirazioni rivoluzionarie.

Erede di una tradizione distopica che non cela lo spettro del malthusianesimo, in un mondo in cui, come puntualizzato da Fredric Jameson (2010), la paura dell’Altro si fonda sull’inquietudine della molteplicità e della sovrappopolazione – intesa come comparsa dell’Altro in forme multiple e in numeri importanti – il film di Bong Joon-ho avanza riflessioni sulle possibili – ove non necessarie – conseguenze di un’ideologia che assegna all’uomo lo stesso valore della cosa.

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In modo simile a molti film del genere, l’assurdo, che si offre alla visione come grottesco, corrisponde narrativamente a un’oggettificazione dell’umano – approdo naturale di un’umanità che dopo l’Apocalisse pare non essere capace di condurre un’esistenza (individuale né collettiva) degna di questo nome. Così la massa ribelle è nulla più che uno strumento studiato per il controllo della popolazione, macchine da guerra programmate per uccidere e morire – nel 74% sul totale, per l’esattezza. Minsu è letteralmente chiave delle porte blindate; i bambini sono letteralmente il “motore eterno” del treno.

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La questione della libertà, per un’umanità svalutata al limite della mera sopravvivenza, si fa quantomeno ambigua. Nella claustrofobia della coda del treno, lo vediamo sin dalle prime scene, il libero arbitrio non sembra rientrare tra le opzioni. Nulla è prerogativa del miserabile dell’ultima carrozza, che non ha alcun potere sulla propria esistenza – cancellando così, in definitiva, il secolare concetto di homo faber.

D’altra parte, alla luce del racconto di Curtis, la questione si fa inevitabilmente più complessa. Perché l’assegnazione di una libertà eccessiva agli individui della post-Apocalisse pare rappresentare un pericolo, più che un’utopia – gli uomini (eroi di turno compresi) lasciati a loro stessi sono infatti capaci di azioni a dir poco orribili. Eppure, in un microcosmo deterministico dove niente è espressione di libero arbitrio, la rivolta sembra costituire il passo iniziale verso una libertà sciolta dai caratteri totalitari del dominio di Wilford e coincidente, dal punto di vista politico, con un liberalismo democratico. Una libertà positiva, quindi desiderabile.

La rivoluzione del diciottesimo anno ha tutta l’aria di concludersi in vittoria, nonostante le massicce perdite di uomini. La vittoria – questa vittoria – ha nondimeno un sapore amaro. Se nelle distopie tradizionali il desiderio di libertà, in quanto minaccia alla stabilità del sistema, è soffocato da apparati statali repressivi e/o ideologici, in Snowpiercer avviene il contrario: l’auspicio di ribellione è infatti sollecitato dalla teorica vittima della rivoluzione. Perché il desiderio stesso di libertà è determinato, programmato, come programmato è ogni singolo aspetto della vita dei miserabili. Paradossalmente, dunque, lo slancio utopico di liberazione espresso dalla rivolta popolare non è altro che l’estrema e ultima dichiarazione dell’inesistenza (e dell’impossibilità) di un libero arbitrio.

Solo la distruzione fisica, del sistema e di chi lo popola, può dar vita a una nuova opportunità, una libertà primordiale – e terrificante. Dall’Apocalisse alla Genesi, in un circolo vizioso che ricalca il viaggio del treno intorno al mondo e che non lascia molta speranza a un’umanità improntata al fallimento.

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Carlotta Po

SWISS ARMY MAN, Daniels (2016)

Quando un cadavere ti salva (paradossalmente) dalla morte.
Scritto e diretto da Daniels, pseudonimo di Dan Kwan e Daniel Scheinert, il film ha vinto il premio per la regia nella categoria US Dramatic al Sundance Film Festival 2016. Ed è forse tra i più originali che si possano guardare nell’arco di una vita.

Tutto è paradossale, ai limiti dell’assurdo, ma un assurdo che non disturba, uno strano bello.


Un cadavere dai poteri soprannaturali (Daniel Radcliffe) diventa fonte di salvezza per il weirdo Hank (Paul Dano), naufrago solitario in quella che pare essere un’isola deserta. Non solo survivor, però. L’eroe di turno è un naufrago dell’esistenza, un superstite della vita. Accompagnato da un’inedita e quantomeno bizzarra figura di supereroe.

A rifornire il protagonista di energia vitale è un letterale porsi di fronte alla morte, prima nel tentato suicidio iniziale poi nella profonda (e assurdamente tenera) amicizia con Manny il cadavere. Che sembra a suo turno riprendere vita, ancora una volta letteralmente, nel rapporto di complicità che lo lega a Hank. I personaggi vincono la morte in un arricchirsi reciproco di esperienza, conoscenza, consapevolezza, il tutto nella condizione più semplice e con i mezzi più modesti: in un bosco, tra la natura (quasi) selvaggia. E con il medium più accessibile: la commedia degli affetti, l’ironia adorabilmente naïve.

Due personaggi, di cui uno pressoché morto, in un unico ambiente nudo e monotono, riescono in maniera esemplare a tenere in piedi una sceneggiatura che trova le sue fondamenta nel monologo e nel silenzio – nel visivo (straniante) prima di tutto – o, a tratti, nella originalissima musica più che mai autoreferenziale cantata dalle voci dei personaggi stessi:

“Now we killed a raccoon

We are using your body like it’s a machine gun

Now we are shooting some fish

Our friendship is blossoming

Let’s eat the stuff we killed

Now we started a fire

I have to admit I’m enjoying your company

Are we falling in love?

All we ever needed was a Montage”

Swiss Army Man è un altro mondo, un microcosmo dove l’autocommiserazione non è ammessa e dove la vita, nella sua essenziale semplicità, è celebrata. Il film di Daniels è in tutto e per tutto un’esperienza che vale la pena vivere.

Carlotta Po